venerdì 14 ottobre 2011

Quello che non ho



 Il vocio arrivava dal palazetto dal back stage il rumore delle voci sembrava un ronzio continuo.
Quanti anni c’erano voluti per essere li, quanti sacrifici, quante porte sbattute in faccia, quanti no avevo dovuto sentire, quanto fiele amaro avevo dovuto ingoiare per arrivare lì.
“E’ pieno ragazzi, il palazetto è zeppo di gente, tra poco si comincia”
Lucio era uno dei tanti che negli anni ci aveva negato qualsiasi possibilità di emergere, ora invece che eravamo diventati un business, una macchina macina soldi si affrettava dietro il back stage assicurandosi che fossimo pronti per lo spettacolo.
“Due minuti e si comincia”
Nella mia testa c’erano solo due parole “Fanculo coglione”
Era ovvio che fosse pieno, dopo tutto quello che avevo passato con i ragazzi in tutti gli anni trascorsi a suonare in locali malfamati con retribuzioni da fame, era arrivato il nostro momento.
Certo, chi ora dirigeva e gestiva le nostre finanze non aveva nulla a che fare con il nostro successo, perchè se non fosse stato per quel grasso uomo che una sera per “caso” si trovava a passare in uno dei tanti localini dove buttavamo sangue e anima suonando, se non fosse stato per quel tizio apparso dal nulla,che tanto aveva insistito proprio con i grandi esperti delle case discografiche che ci avevano sempre snobbato, beh se non ci fosse stato quel grasso uomo, probabilmente, saremmo ancora in quei locali sudici a sognare di diventare famosi.
Ma questa è un’ altra storia, una storia del passato, ora eravamo nel back stage di un palazzetto con 15.000 persone che aspettavano solo che noi salissimo sul palco per ascoltare quello che dalle nostre menti e dai nostri cuori era nato.
Nel palazzetto le luci si spensero completamente era arrivato il momento, come sempre in quel preciso istante ogni cosa svaniva, non ricordavo più nulla e il panico si mischiava all’adrenalina, un cocktail letale per il cuore che batteva all’impazzata al ritmo delle voci dei 15.000 che urlavano: “Fuori, fuori, fuori…”
La batteria cominciava a tenere il tempo, eravamo già tutti sul palco ai nostri posti un ultima occhiata alla mia postazione e le varie luci che dalle tastiere arrivavano mi confondevano ogni volta, guardavo ma non vedevo, anche se qualcosa fosse stato non a posto ormai era troppo tardi, il grande telo nero che ci separava dalla folla da lì a pochi istanti sarebbe caduto a terra e ci avrebbe svelato quella massa di persone che impazziva per noi , che amava tutto di noi, che conosceva a memoria ogni intonazione, ogni parola , ogni respiro delle nostre canzoni.
Un secondo e il telo era a terra le luci infiammarono la platea e davanti ai nostri occhi un mare di mani alzate al cielo e le urla che arrivavano fino a noi nonostante l’elevato volume della musica.
Sotto al palco le mani si allungavano come a volerci toccare qualcuno tentava di salire ma il servizio d’ordine teneva a bada la situazione.
Mentre le mie dita scorrevano sui tasti delle gocce di sudore le bagnavano, avevamo cominciato solo da pochi minuti eppure quel sudore mi confermava che ci stavo mettendo l’anima, che stavo dando tutto me stesso ad ogni singola persona che era accorsa li per me, per noi, per ascoltarci.
La fine del primo brano e l’urlo che si levava nell’ aria sembrava un boato atomico.
Il secondo brano in scaletta era una hit dell’estate appena passata, appena finito il breve discorso del cantante con i saluti alla città e ai fans cominciai a toccare i tasti che intonavano proprio quel brano che tanto aveva spopolato durante l’estate, un’ urlo ancora più forte di quello sentito alla fine del primo brano come un’onda d’urto arrivo al mio stomaco, le mani mi tremavano ogni volta che sentivo quel calore dovuto a quelle voci che sembravano alzarsi all’unisono, anzi era proprio così, aspettavano tutti solo di poter urlare per farci capire quanto ci amavano.
Il concerto continuò senza intoppi in un crescendo di emozioni, l’ odore acre dei fumi di scena invadevano la mia trachea lasciandomi ogni volta sempre quello strano sapore di mela verde in gola e sulla lingua.
Ultimo brano e via dietro il back stage, stanchi sudati, sfiniti, ma con dentro tanto tanto amore.
Le voci non accennavano a calmarsi ci volevano ancora fuori…qualche minuto d’incitamento prima di ritornare sul palco per un ‘ulteriore boato che ci accoglieva ogni volta  che tornavamo sul palco per raggiungere la propria postazione.
Le luci si accesero nel palazetto una volta finito il concerto e dal back stage guardavo tutte quelle persone che si dirigevano verso le quattro uscite.
Le fasce sulla testa, le magliette, le felpe, i cappellini con il nome della nostra band si allontanavano insieme al nostro pubblico, indossate dal nostro pubblico.
Erano loro che ci davano e mi davano la forza di continuare, di trovare una motivazione di esistere e di essere.
Nel camerino appena entrato una volta sul divano sfinito mi addormento quasi subito.
Il suono acuto mi dava fastidio a tal punto da farmi svegliare, la bocca impastata e gli occhi ancora gonfi, qualche passo trascinato sul pavimento per arrivare davanti allo specchio del bagno.
Un po’ di acqua sul viso per riprendermi prima di accendere la luce che come una fitta mi trapassava i bulbi oculari ogni mattina.
La barba sfatta e le borse sotto gli occhi, qualche ruga ai loro lati e la realtà davanti a me.
La schiuma posata sul viso e la lametta che scivolando taglia quel prato nero che sul viso sembra sporco.
Ecco un altro giorno identico a ieri e uguale a domani…il lavoro mi aspetta lì inesorabile, solo di notte mentre dormo qualche volta il sogno ritorna a ricordarmi che forse…la mia vita non è questa che vivo ma quella che sogno, quella che ho sempre sognato e che mai mi farà sognare diventando realtà.
Chiudo la porta alle mie spalle lasciando dentro casa quell’alone di sogno che evapora come i miei anni.