domenica 19 giugno 2011

La stazione

Il treno era appena partito, il panorama scorreva davanti ai miei occhi come in un film che cambia continuamente scena.

Il vagone era quasi vuoto, forse una decina di persone in tutto.

Di fronte a me un bambino di pochi mesi, in braccio alla mamma, mentre mi sorrideva faceva bolle di saliva con la bocca, anche la madre mi sorrideva, ed ero molto di più interessato alla mammina che al bel bambino cicciottello, che continuava imperterrito a produrre saliva in bolle spruzzandone una quantità importante sui miei pantaloni.

“Mi scusi per il mio bimbo, non volevo le sporcasse i pantaloni” disse la mammina con voce suadente tirando fuori dalla sua borsetta un kleneex porgendomelo.

“Non si preoccupi, e solo un po' di saliva” risposi mentre asciugavo i pantaloni “ e poi il suo è un bimbo così bello, che gli si può perdonare tutto.” dissi con gentilezza alla bella mammina, che mostrava un decolté molto prosperoso, che era impossibile non guardare.

“Bimba, è una bambina, si chiama Chantal.” precisò la mammina.

Giocai con la piccola Chantal per qualche minuto come si fa con i cuccioli di umano, producendo quei versi da deficienti, che solo davanti a un pargolo di pochi mesi, si possono emettere, senza cadere nel ridicolo per chi ti ascolta.

“E’ proprio una bella bimba, bella come la mamma” avevo trovato il modo giusto per attaccare discorso con la bella mammina,

“ E dimmi Chantal la tua mamma ha anche un nome bello come il tuo?”

La domanda posta alla piccola Chantal, in modo da sembrare agli occhi della bella mammina un quesito realmente innocente, ebbe il risultato che mi aspettavo.

“Melissa è il mio nome, piacere” rispose la mammina, guardandomi con i suoi occhioni scuri da cerbiatta.

“ Piacere mio, Franklin, Franklin Button.” risposi prontamente.

Parlai con la bella mammina prosperosa per una mezz’ora circa, fino a che compresi dai suoi discorsi che non c’erano speranze di alcun genere.

Era innamorata di suo marito, sposata da solo un anno e mezzo, e Chantal, aveva solo sei mesi, un’impresa impossibile, potevo solo sperare in un’amicizia da treno, null’altro.

Fuori aveva cominciato a piovere e le goccioline che s’infrangevano sul finestrino si allungavano e stendevano simmetricamente nella stessa direzione di marcia del treno.

Alla fermata successiva Melissa e la piccola Chantal scesero dal treno, mi salutò sorridendomi e con un’ulteriore sbuffo di saliva, mentre Melissa, scusandosi nuovamente per il fatto che i miei pantaloni fossero ormai fradici per colpa della sua piccola, si congedò da me ancheggiando vistosamente, conquistando la banchina della stazione.

Il suo vestito a fiori di cotone leggero si muoveva insieme al suo passo delicato e sensuale mettendo in evidenza le sue belle gambe e le sue strette caviglie, impreziosite ancor di più, da bellissimi sandali estivi bianchi dal tacco alto.

Era veramente una bella donna, peccato non poter andare oltre con lei, pensai.

Scesero anche tutti gli altri passeggeri del vagone dov’ero, tranne un ragazzo di colore, seduto sul fondo dello stesso, che parlava al cellulare gesticolando in modo animato.

L’altoparlante della stazione gracchiando annunciava il ritardo del treno proveniente da nord e dopo pochi minuti di sosta il treno riprese la sua corsa con un fastidioso stridolio.

Il dondolio e il rumore costante delle ruote che battevano sulle giunture dei binari mi conciliarono il sonno, e in pochi istanti, sprofondai nel buio più assoluto, addormentandomi.

Non so veramente per quanto tempo dormii, forse pochi minuti, forse di più, ma quando mi svegliai il treno era fermo e la carrozza completamente vuota.

Anche il ragazzo di colore che avevo notato poco prima di addormentarmi non era più seduto al suo posto, nonostante non fosse sceso nella stazione precedente, dove si erano fermate Melissa e Chantal.

La cosa non mi preoccupò più di tanto anche perché non sapevo quante stazioni fossero passate mentre dormivo, probabilmente il ragazzo si era solo spostato di vagone.

Guardai fuori dal finestrino spostando di poco la tendina, aveva smesso di piovere e c’era un bel sole, gli alberi intorno alla stazione erano immobili, non c’era nemmeno un soffio di vento, passai una mano sulla fronte asciugandone il sudore, avevo la gola arsa.

La fontana vicino all’uscita principale sgorgava un fiotto d’acqua che amplificò la mia sete e intensificò la sensazione di caldo.

La stazione non mi era nota, ero certo che lì il treno, non si fosse mai fermato.

Dopo qualche minuto tirai giù il finestrino e mi affacciai, la stazione pareva deserta, e il treno sembrava non avesse nessuna intenzione di ripartire.

Scesi dal treno per verificare quale fosse il problema e quale fosse la motivazione del ritardo.

La piccola stazione era effettivamente deserta e cosa ancora più strana, guardando dalla banchina verso l’interno dei vagoni, il treno completamente vuoto.

Decisi di uscire dalla stazione per cercare un mezzo alternativo con cui proseguire il mio viaggio, ero già in ritardo per il mio appuntamento, e questo imprevisto, stava dilatando ancora di più la distanza tra me e l’orario del mio incontro.

Arrivato alla porta, la spinsi con forza per aprirla.

Quello che accadde mi confuse parecchio per quanto mi parve strana la cosa: ero appena uscito dalla stazione ma ciò che ritrovavo davanti a me era il treno, la banchina e alle mie spalle la porta d'uscita.

Feci altri tre tentativi ma l'esito fu sempre lo stesso.

Ogni volta che tentavo di uscire all'esterno, mi ritrovavo sulla banchina all'interno della stazione davanti al treno e con l'uscio alle spalle.

Forse stavo sognando, strofinarmi gli occhi poteva essere una soluzione per cercare di svegliarmi, semmai stessi dormendo, ma non funzionò.

Ero sveglio.

Mi accomodai su una panchina vicino alla sala d’attesa, cercando di rimanere calmo, ero certo che c’era una spiegazione a tutto quello che stava accadendo, doveva esserci una logica in quello che stava succedendo, dovevo solo trovarla.

Il convoglio fermo sui binari sembrava un treno fantasma, nessun movimento nessun segno di vita, anche l'aria sembrava essersi fermata, nessun rumore turbava quello scenario insolito.

Faceva molto caldo, la temperatura si era alzata e la gola bruciava in modo più intenso, il sole era alto nel cielo terso di luglio.

La fontana vicino all’uscita aveva smesso di sgorgare acqua.

Cercai nelle mie tasche qualche moneta per prendere qualcosa di dissetante ai distributori automatici posti sulla banchina.

Cinquanta centesimi bastavano, ed era l’unica moneta che trovai nella tasca della mia giacca.

La moneta con un rumore metallico percorreva lo scivolo interno finendo in fondo al distributore con un rumore sordo.

Selezione 47, una fresca bottiglia di succo d’arancia rossa.

La spirale cominciò a girare in senso orario bloccandosi a metà imprigionando la bottiglia al suo interno, sul display elettronico un messaggio lampeggiante m’informava che il distributore era andato fuori servizio.

“Vaffanculo” urlai, sbattendo il distributore nel tentativo di liberare la bottiglia dalla spirale.

Nulla, i tentativi fallirono lasciando la mia gola ad ardere sotto il sole di luglio delle 12.37, come indicava il grande orologio vicino al chiosco chiuso dei giornali.

Avrei tentato nuovamente di uscire da quella stazione, non aveva senso quello che stava accadendo, nessun senso.

Mentre mi dirigevo nuovamente verso l’uscita, osservai la fontana che solo pochi minuti prima sgorgava acqua fresca, ora sembrava inattiva da molto tempo.

La sua base era completamente impolverata e le ragnatele la ricoprivano quasi totalmente.

Cosa stava accadendo, non riuscivo veramente a capire che diavolo stesse succedendo, mi sembrava di vivere uno stato di allucinazione, forse è il sole caldo, pensai, in realtà, era solo un modo razionale di giustificare quella situazione insolita che stavo vivendo.

Un fischio ruppe l'aria immobile, mi voltai di scatto e vidi sul fondo della banchina verso la motrice del treno il capo stazione che agitava la sua paletta verde per dare via libera al treno.

Il convoglio lentamente ripartì, muovendosi a strattoni.

Cercai di prenderlo tentando di aprire uno sportello, ma non si spalancò, tentai più volte, finché non caddi a terra rotolando rovinosamente quasi ai piedi del capo stazione.

“Si è fatto male ragazzo?”mi chiese l'uomo in divisa nera.

“Non è nulla” risposi alzandomi, mentre mi spolveravo i pantaloni con le mani guardando il treno che si allontanava dalla stazione salutandomi con i suoi lampeggianti rossi a intermittenza.

“Senta che razza di stazione è mai questa?”

“Sono sceso dal treno e ho cercato di uscire da questo posto ma il risultato e che sono bloccato qui, non riesco a uscire da questa stazione!” continuai irritato.

Il capostazione mi guardò e sorrise scuotendo la testa, infilò la paletta nella cintura, tolse il cappello rosso con fascia grigia che orlava la tesa di pelle nera lucida dalla testa, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un fazzoletto bianco di cotone.

“Mi segua ragazzo venga con me”.

Non ero molto felice di seguirlo perché non aveva dato alcuna risposta alla mia domanda, dopo un momento d’incertezza, guardandomi intorno, compresi di non avere molte possibilità di scelta.

Come un cane fedele che scodinzola, seguii il capo stazione, come se fosse il mio padrone.

Entrò in una minuscola stanza quadrata posta sul fondo della banchina tra la sala d'aspetto e i bagni pubblici.

Era molto piccola e spoglia, la sensazione che mi trasmetteva quell’ambiente era di solitudine e tristezza.

Sembrava non avere memoria di nulla, come se forse ferma nel tempo.

L’ambiente era composto di poche cose, essenziale, estremamente essenziale.

Un tavolo, due sedie di paglia sgangherate, una branda, un fornello a gas come quelli che si usano in campeggio.

Sopra a fornello un piccolo pensile a due ante di colore giallo sporco, in basso a destra un frigorifero bianco molto piccolo, al muro sopra il lavello, uno specchio ovale rotto nella parte superiore sinistra.

Una piccolissima feritoia che fungeva da finestra posta sulla parete destra, faceva filtrare una luce fioca.

Una porta non più alta di un metro era nell'angolo destro della stanza, probabilmente doveva essere il bagno, pensai.

Come faceva quell’uomo a restare in un posto così desolato?

Ero rimasto sulla soglia mentre osservavo la stanza fino a che il capostazione con un cenno m’indicò una delle due sedie, e anche se non gradivo farlo, entrai accomodandomi.

Lo scrutavo, mentre con estrema lentezza, dal piccolo pensile giallo sporco tirava fuori due bicchieri e una bottiglia di vino rosso, che dopo aver avvitato nel sughero buona parte del cavatappi con un colpo netto, stappò.

Il rumore del vino che scendeva gorgheggiando riempì quasi fino al bordo i due bicchieri.

Appoggiata la bottiglia sul tavolo, riposizionò forzandolo un po', il tappo di sughero nel foro della bottiglia.

Alzò il suo bicchiere, come se stesse invitandomi a fare un brindisi, e diede una lunga sorsata, ingurgitando metà del suo vino.

Dopo essersi asciugato la bocca con la manica della giacca, cominciò a parlare.

“Non beve ragazzo?”

“No non ne ho voglia, preferirei dell’acqua, e comunque lei mi deve dare una spiegazi…”.

Il capostazione con soave tranquillità non mi diede possibilità di concludere la frase.

“Beva ragazzo, è molto buono, un nettare, non se ne pentirà, le uve di queste zone sono molto zuccherine, un vino unico”.

Non amavo il vino, anzi, in pratica ero astemio, ma con un sorriso di circostanza, presi il bicchiere e bagnai leggermente le labbra.

“Molto buono…” dissi.

“Non l’ha nemmeno assaggiato, non apprezza la mia ospitalità?” replicò il capostazione.

Le domande e l’insistenza dell’uomo m’infastidirono, ma la mia situazione, quell’assurda circostanza, non giocava certo a mio favore, ingurgitai in un solo sorso tutto il contenuto del mio bicchiere, senza pensarci più.

“Bene ora va meglio, da dove viene ragazzo?” mi domandò.

“Dove siamo?” Chiesi invece di rispondere alla sua domanda e continuai “Perché sono intrappolato in questa stazione?”.

Dopo essersi versato e aver riempito nuovamente il mio bicchiere guardandomi con aria particolarmente pietosa, fece un lungo sospiro prima di proferire parola.

“Ragazzo mio lei è nel posto più improbabile e sconveniente, dove le poteva capitare di essere... “.

“Si spieghi meglio cosa intende?

“Ragazzo è veramente sicuro di voler sapere dove si trova?”

“ Certo che ne sono sicuro, che cazzo di domande fa?” la mia pazienza veniva messa a dura prova, avrei voluto strozzare quell’ambiguo individuo, ma sapevo che era la mia unica possibilità e restai calmo.

“Questo è il nulla!” rispose con fare rassegnato, mentre giocherellava con l’etichetta della bottiglia di vino rosso.

Mi accigliai e nello stesso tempo scoppiai quasi a ridere ma lui continuò, smorzando il mio slancio.

“Qui tutto è, ma nello stesso tempo, nulla è!”

“Scusi” dissi dopo aver svuotato nuovamente il mio bicchiere “Lei mi sta prendendo in giro vero?”

“Vedo che comincia ad apprezzare il vino di queste zone”.

Riempii nuovamente i due bicchieri.

“Senta, facciamola finita” dissi alzandomi di scatto dalla sedia “Quando passerà il prossimo treno da questa stazione del cazzo!”

Il capostazione rimase seduto come se nulla fosse e la sua voce diventò sempre più calma e quieta, amplificando ancor di più il mio nervosismo.

“Si calmi ragazzo, si sieda, beva un altro bicchiere, agitarsi non le serve a nulla.”

Per un istante pensai di uscire e di andarmene, ma sapevo di non poterlo fare e che l’unico che poteva darmi una soluzione era quel maledetto uomo che continuava a versare nel mio bicchiere quel nettare zuccherino di quelle parti, di quali parti parlava poi?

Non sapevo né dov’ero e nemmeno se ero realmente in quel posto.

Mi sembrava di vivere un incubo, la speranza era di svegliarmi e scoprire che realmente stavo solo sognando.

Tornai a sedere, e sorseggiai ancora una volta il vino rosso rubino dal sapore di zucchero filato.

“Ragazzo mi ascolti attentamente, l'unico treno è già transitato in questa stazione ed è quello da dove è sceso lei, non esistono altri treni che arriveranno qui”disse appoggiando la sua mano sulla mia.

“Sì ma fino a quando domani?”, chiesi irritato ritraendo la mano, “Dopodomani, fra tre giorni? tra quanto tempo?”.

“Sono arrivato in questa stazione e non c’è possibilità di uscire, l’unica persona a cui chiedere qualcosa e lei, che invece di darmi delle soluzioni, continua a versarmi del vino, seduto su una sedia di paglia sgangherata, in una stanza schifosamente spoglia e poco illuminata.” “Chiedo delle risposte e lei non me ne da nessuna, cristo santo, quando passa questo maledetto treno!” Gridai.

“Ragazzo vedo che lei non mi sta ascoltando, se ne faccia una ragione, non ci saranno prossimi treni, a meno che…”fece una lunga pausa mentre sorseggiava un altro bicchiere di quel maledetto vino.

“A meno che, cosa?” domandai.

“A meno che…” disse mentre s’incamminava verso la stanza attigua, abbassandosi per passare attraverso la porta di poco più di un metro, da cui uscì dopo alcuni istanti.

In mano aveva una scatola rossa di legno con delle venature sul lato posteriore di color marrone marcato.

Una volta tornato a sedersi al tavolo di fronte a me appoggiò la scatola sul tavolo e versò nel suo bicchiere un goccio di vino.

“ A meno che…?” chiesi nuovamente.

Era tutto talmente assurdo che avevo difficoltà a credere che stesse realmente accadendo.

“A meno che, lei non risponda a tre semplici domande” disse appoggiandosi comodamente con le braccia sulla scatola.

Pensai seriamente di essere diventato folle e che la mia integrità mentale ormai fosse del tutto danneggiata, ma poiché ero in quella situazione, e che sembravano non esserci altre soluzioni, risposi che lo avrei fatto, che avrei risposto alle sue stupide domande.

Aprì la scatola e ne tirò fuori un foglio piegato in quattro, con molta delicatezza lo spiegò cominciando a leggerne il contenuto.

“Tre domande tre sono l’unica soluzione a tutto, tre domande, tre”.

“E’ pronto ragazzo?” chiese.

“Si certo” risposi scocciato “ Ho alternative?”

Il capostazione sembrava seccato dal mio modo distaccato e arrogante di rispondere, il suo sguardo accusatorio ne era la conferma.

“Cominciamo.” disse con tono deciso abbassando gli occhi sul foglio di carta.

“Prima domanda: Qual è il satellite del pianeta terra?”

“La luna!” risposi senza esitare.

“Tre domande tre sono l’unica soluzione a tutto, tre domande, tre”.

“Seconda domanda: quante sono le ore che compongono un giorno terrestre?”

“Ventiquattro”risposi e pensai che le domande del capostazione fossero tanto banali, quanto era assurda la situazione che stavo vivendo.

La filastrocca continuava

“Tre domande tre sono l’unica soluzione a tutto, tre domande, tre”.

“Terza domanda: qual è il suo nome di battesimo?” chiese con voce grave.

La terza e a quanto avevo capito anche l’ultima domanda, di quell'assurdo gioco mi era sembrata veramente troppo banale, troppo scontata, come potevo non conoscere il mio nome? Qualcosa non quadrava, come tutto il resto d’altronde.

Il dubbio, il sospetto, la paura che il capostazione mi stesse tirando un colpo basso mi fece decidere di mentire sul mio nome.

“Micheal è il mio nome di battesimo”risposi con aria di sfida e sicuro di me.

Il capostazione in silenzio quasi religioso ripiegò in quattro il foglio riponendolo nella scatola rossa di legno, chiudendola.

Si alzò e tornò nell'altra stanza.

Non riuscivo a comprendere il suo comportamento, non comprendevo quell'assurdo modo di giocare con la vita delle persone, è uno scherzo? Bene ora basta potete anche uscire, farmi vedere le telecamere e dirmi che sono su uno di quegli show del cazzo dove le persone vengono sbeffeggiate per far divertire il pubblico a casa, l'importante ora, e che veniate fuori e allo scoperto.

Era una mia speranza a quel punto, non potevo pensare a una cosa diversa.

Rimasi seduto e in silenzio, in attesa che il capostazione tornasse da me, versai un altro bicchiere di vino che scolai in pochi secondi.

Solo in quel momento mi accorsi che la bottiglia di vino era ancora piena, nonostante i due bicchieri fossero stati riempiti più volte dal capostazione dall’inizio di quel delirio.

Ma in quegli show sanno fare anche queste cose? Giochi di prestigio, probabilmente.

Dopo pochi istanti il capostazione rientrò nella stanza.

Appoggiò la sua divisa nera, che fino a pochi minuti prima indossava, ben ripiegata sul tavolo vicino al mio bicchiere vuoto.

Aveva indossato un completo grigio, taglio classico con cravatta rossa e scarpe di vernice nera, avevo la netta sensazione che stesse per andarsene.

La confusione aumentava, come aumentava la certezza che la mia mente non era più registrata, stavo certamente impazzendo, non poteva essere altrimenti, non ero vittima di una candid camera, iniziavo a credere che stesse realmente accadendo.

“Bene e ora cos’e’ questa pagliacciata?” Chiesi in modo ironico scovando ancora un pizzico di coraggio dentro di me “Il gioco delle tre domande com'è finito?” “Questi vestiti cosa sono, il mio premio?” terminai con strafottenza.

“In un certo senso sì, potrebbe considerarlo il suo premio, certo dipende da quale punto di vista si guarda la cosa” rispose con estrema calma.

Nei suoi occhi riuscivo a vedere la serenità, i suoi occhi azzurri limpidi, come il cielo di quella strana giornata di luglio, sembravano sorridere, a differenza di pochi istanti prima che il gioco delle domande finisse, che parevano cupi e grigi.

“Il gioco delle tre domande allora com’e’ finito, lo posso sapere?” chiesi nuovamente.

“E' finito ragazzo mio, semplicemente finito” rispose versando e riempiendo nuovamente i due bicchieri sul tavolo “Questi vestiti ora sono suoi, ora è lei il nuovo capo stazione”rispose in modo secco, prima di scolare il suo ultimo bicchiere di vino rosso leccandosi le labbra.

Lo guardai incredulo, non credevo alle sue parole, tutto era assolutamente folle e assurdo, tentai una sorta di ribellione alzandomi dalla sedia, che scagliai con un calcio verso il muro dietro le mie spalle.

Feci per parlare ma lui portò il suo indice alle labbra seguito da un lieve sibilo, che mi azzittì.

“Il suo nome non è Micheal, ma e Franklin.”

disse guardandomi dritto negli occhi.

Era vero quello era il mio nome, Franklin.

“Bastava un briciolo di sincerità in più, bastava che non mentisse sul suo nome, bastava questo, solo questo, e sarebbe stato libero di andarsene” disse con un tono talmente pacato e determinato a tal punto che non mi fu possibile non credergli. “Invece ragazzo mio, si è fatto prendere dal dubbio, dal sospetto, dalla paura di essere imbrogliato e la sua malafede l’ha portata a mentire, questo ha liberato me dopo molti secoli e imprigionato lei, non si sa per quanti altri ancora” continuò sempre con lo stesso tono di voce guardandomi in modo ancora più intenso “Resterà qui finché la sua fiducia nella gente e nella vita non sarà assoluta, quando il dubbio non farà più parte della sua esistenza.”

La voce dell’ex capostazione era diventata come un mantra, non riuscivo a dire più nulla, come se quello che ascoltavo fosse realmente l’unica possibilità che avessi a disposizione.

Stava diventando la mia realtà.

“Quel giorno vedrà entrare in questa stazione un treno con a bordo, forse, la persona che la libererà, una persona che come lei, per sfiducia nella vita, mentirà sul suo nome, addio Franklin”.

Mi consegnò la scatola rossa di legno contenente il foglio di carta ripiegata in quattro con il gioco delle domande.

Lo guardai mentre si allontanava canticchiando la filastracca del gioco, “ Tre domande tre sono l'unica soluzione a tutto, tre domande, tre.”

La sua voce si fece sempre più debole dopo aver varcato la soglia della porta principale della stazione che si chiuse alle sue spalle facendolo scomparire dalla mia vista e al mio udito.

Tornai nella spoglia stanza e versai riempiendo nuovamente il bicchiere di vino che svuotai immediatamente.

Nonostante fossi astemio tutto quel vino non mi aveva fatto alcun effetto, sempre che fosse vino.

Lavai i due bicchieri accuratamente e dopo averli asciugati li riposi nel pensile giallo sporco insieme alla bottiglia inesauribile di buonissimo vino rosso zuccherino, che solo da quelle parti si poteva trovare.

Sull'etichetta c'era scritto: La-nul -Vino di uva zuccherina di queste parti.

Indossai la divisa, misi il cappello rosso con la fascia grigia sulla tesa di pelle nera e mi guardai nello specchio rotto posto sopra il lavello.

I miei occhi verde smeraldo erano diventati grigio cupo.

Fuori sulla banchina era tornato un leggero vento, l'acqua della fontana aveva ricominciato a sgorgare, il caldo si era fatto meno intenso e la mia gola non ardeva più, stranamente, il vino rosso mi aveva dissetato più di un sorso d'acqua.

In lontananza alcune nubi nere cariche di pioggia si avvicinavano, i soliti temporali estivi, pensai.

Cominciai ad aspettare attendendo quel treno che forse un giorno avrebbe condotto da me qualcuno, qualcuno che sarebbe sceso nella mia stazione.

La stazione del nulla.

1 commento:

  1. E daiii....questo racconto è stato proprio bello!! e bravo stroonzo ^^. 10 e lode.

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